La storia dell’Atletica ai Giochi Olimpici ci porta oggi all’edizione di Citta’ del Messico 1968. Edizione storica per molti aspetti, da quelli puramente tecnico sportivi come la presenza del tartan fino a quelli politici con la famosa protesta sul podio dei 200 uomini. L’edizione vedra’ anche la presenza di ragazzi azzurri, oggi illustri dirigenti e tecnici; uno su tutti il Presidente federale Francesco Arese. Appuntamento a mercoledi’ prossimo con l’edizione di Monaco 1972.
CITTA’ DEL MESSICO 1968 (di Davide Cartesegna)
L’Olimpiade numero diciannove si disputa dal 12 al 27 ottobre del 1968 a Mexico City (atletica: 13-20 ottobre). Purtroppo sono anche i Giochi in cui la commistione con la politica si fa pressante, a tratti tragica e comunque per parecchie delle prossime edizioni una presenza costante. A pochi giorni dall’apertura la situazione interna era tesa per le proteste degli studenti universitari verso il governo ed il presidente, che accusandoli di volere boicottare l’evento, aveva ordinato perquisizioni nei vari atenei, culminate con l’occupazione militare dell’università della capitale con centinaia di arresti fra studenti ed attivisti politici. Nella notte fra il 2 ed il 3 ottobre gli studenti si danno appuntamento nella Piazza delle Tre Culture per una manifestazione alla quale il governo risponde, incredibilmente, con una sanguinosa strage, della quale non si avranno mai cifre esatte (si parlò di centinaia di morti). La piazza veniva bloccata in ogni accesso mentre l’esercito apriva il fuoco dagli edifici e dagli elicotteri. L’efferatezza della strage porterà a manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo ed a proteste nei confronti del CIO che decide comunque di fare svolgere le gare.
Passando alla cronaca per la gioia dei velocisti (saranno parecchi i mondiali stabiliti, leggendari e longevi) e la disperazione dei corridori di lunga lena si sale in altura (la capitale è situata 2300 metri) che, con la relativa rarefazione dell’aria favorirà degli exploit storici. Nei cento metri si impone James “Jim” Hines, primo uomo ad infrangere la barriera dei dieci secondi, che sfreccia in 9″95, primato mondiale in vigore fino al 1983. Nella distanza doppia ecco il podio che rimarrà scolpito nella storia, non solo sportiva; il podio della contestazione a pugni chiusi, mentre suona l’inno nazionale, ad un potere che non voleva riconoscere il principio basilare dell’umanità: ogni essere umano è uguale, senza distinzioni di pigmento e di razza. Tommie Smith è olimpionico con 19″83 (altro record del mondo che solo nel 1979 verrà migliorato da un certo…Pietro Mennea, nello stesso stadio), seguito dall’australiano Peter Norman (20″06) e dall’altro statunitense, John Carlos (20″10). Il gesto dei due velocisti, che darà risalto massimo ai problemi dell’emarginazione negra negli Usa, costerà loro caro con l’espulsione dal Villaggio Olimpico e di fatto una chiusura prematura della loro carriera. Fantastica tripletta Usa nel giro di pista: Lee Evans, eccezionale interprete della gara, vince in 43″86 (vent’anni esatti rimarrà imbattuto questo record) seguito da Larry James (43″97) e Ron Freeeman (44″41). In gesto di solidarietà verso i loro compagni, saliranno sul podio indossando un basco nero.
Grande l’impresa dell’australiano Ralph Doubell negli ottocento metri che nel finale batte il favorito keniota Wilson Kiprugut, imponendosi in 1:44″3 (pm eguagliato). Questa è l’unica gara che sfuggirà agli atleti africani, capaci di un dominio, simile a quello che si avrà dagli anni novanta fino ad oggi. Spicca la figura di Kipchoge “Kip” Keino, cresciuto nella zona delle colline Nandi, che compì il capolavoro della sua carriera nella vittoriosa galoppata sui 1500 metri, vinti in 3:34″91 con una corsa elegante ma giocata su ritmi ritenuti proibitivi in altitudine nel mezzofondo e nel fondo. Al traguardo gli altri sono lontanissimi, ad iniziare dal giovane talentuoso statunitense James “Jim” Ryun, argento in 3:37″89 che alla vigilia era considerato il grande favorito. Keino conquista anche l’argento nei 5000 metri, superato solo dal tunisino Mohamed Gammoudi, a sua volta medaglia di bronzo nella distanza doppia, vinta da un altro atleta, l’etiope Nabiba Naftali Temu. L’etiope si impone in 29:27″40,superando il keniota l’etiope Mamo Wolde (29:28″75), concludendo le sue fatiche olimpiche partecipando alla maratona dove si piazza diciannovesimo, non dimenticando il bronzo vinto nei cinquemila metri. Nella maratona olimpica, dove tramonta il sogno del tris dorato per Abebe Bikila, costretto al ritiro, trionfa il veterano Mamo Wolde, ormai trentaseienne, che era già presente nelle gare di mezzofondo a Melbourne1956 e sarà capace di vincere il bronzo, quattro anni dopo, a Monaco di Baviera. I tremila siepi generano una delle grandi “sorpresissime”, saltate fuori dalla magica scatola olimpica. Tale verrà considerata la vittoria del keniota Amos Biwott, atleta poco conosciuto dalla tecnica approssimativa e con un personale modestissimo(8:44″8), capace di battere i grandi favoriti, fra i quali il connazionale Benjamin Kogo. Si ripresenterà a Monaco di Baviera 1972, dove sarà solo sesto per scomparire rapidamente dal radar della grande atletica.
Negli ostacoli alti lo statunitense Willie Davenport (atleta dalla lunga carriera, sarà ancora bronzo a Montreal 1976) vince in 13″33, mentre in quelli bassi si interrompe il dominio Usa che durava da trentadue anni, per merito del britannico David Hemery, che suggella la sua miglior stagione con una netta vittoria ottenuta migliorando il record del mondo in 48″12, lasciando gli altri lontanissimi.
Se le gare in pista lasciano ricordi indelebili, non saranno da meno quelle nelle pedane dei salti. Nel salto in alto lo statunitense Richard “Dick” Fosbury (oro con la misura di 2.24mt), scavalcando l’asticella, affrontata con il busto reclinato all’indietro, prima con la testa ed infine con le gambe, dava l’inizio ad una “rivoluzione copernicana” ed inimmaginabile in quei giorni, che avrebbe portato alla fine del ventrale, in poco meno di un decennio. Il nuovo stile prese il nome da lui e sarà universalmente noto come “Fosbury Flop” e avrà come pregio decisivo un apprendimento tecnico più agevole rispetto allo “Straddle”. Nel salto in lungo il volo inarrestabile di Robert “Bob” Beamon, il record più magnificato e discusso di sempre, cinquanta centimetri di miglioramento del mondiale in un colpo solo! Qualcuno lo definì, probabilmente azzeccandoci, “un salto nel XXI Secolo” e tale rimane, anche se ai Mondiali di Tokyo, ventitre anni dopo, Mike Powell ricadrà a 8.95 metri! Potenza,eleganza,agilità; questi gli aggettivi più adatti per i protagonisti di una memorabile gara di salto triplo, capace di riscrivere la propria storia con cinque primati mondiali: Giuseppe Gentile (17.10mt/ql, 17.22mt), Viktor Saneyev (Urss/17.23mt), Nelson Prudencio (Bra/17.27mt) fino al verdetto finale che premia ancora Saneyev, con 17.39mt. Il triplista, capace di una longevità senza uguali, conquista il primo di tre titoli olimpici consecutivi e verrà considerato giustamente il più grande interprete della specialità.
Nei lanci si conclude la parabola vincente del discobolo Al Oerter, implacabile nel sovvertire ancora una volta il pronostico che vedeva il suo connazionale e primatista del mondo, Jay Silvester ultra-favorito (alla fine solamente quinto), piazzando al terzo lancio la botta vincente di 64.78mt, mentre si incoronano nomi eccellenti nelle altre specialità quali James Randell “Randy” Matson (Usa/peso-20.54mt) e Janis Lusis (Urss/giavellotto-90.10mt). Prima storica medaglia d’oro per la Germania Est,il “tornado DDR” in cinque edizioni dei Giochi dominerà i medaglieri, insidiando i colossi storici, Usa ed Urss. Il marciatore Christoph Hohne, grande agonista, si aggiudica la cinquanta chilometri, toccando l’apice della sua carriera.
Passando alle gare femminili, anche qui le gare di velocità vedono le protagoniste al primato mondiale. Wyomia Tyus rivince i 100 metri correndo in 11″08, mentre nella distanza doppia il mondiale fissato a 22″58 è della polacca Irena Szewinska. Sarà invece primato europeo il 52″03 nel giro di pista della francese Colette Besson, che precede la britannica Lillian Board, l’atleta “senza futuro”, stroncata pochi anni dopo da un male incurabile. Festival australiano negli 80hs,con Maureen Caird (10″3)e Pamela Kilborn (10″4). La cecoslovacca Miloslava Hubnerova-Rezkova è la più brava ad approfittare del vuoto lasciato dall’immensa Balas, vincendo l’alto femminile saltando 1.82 metri .Anche il lungo femminile registra un mondiale, anche se meno eclatante di quello maschile, per merito della rumena Viorica Viscopoleanu, oro con 6.82 metri. Le Donne Da Record fanno doppietta nel getto del peso con Margitta Gummel (19.61mt/PM) e Marita Lange (18.78mt). Nel lancio del disco, la primatista di presenze olimpiche (a fine carriera saranno sei), la rumena Lia Manoliu, al quinto tentativo ottiene finalmente l’agognato oro olimpico, lanciando a 58.28 metri, alla prima prova, pur gareggiando con un problema fisico al braccio di lancio.
ATLETI ITALIANI: Partecipiamo con ventisei concorrenti, scrivendo pagine importanti. Due sono le medaglie di bronzo, con risultati storici come nel triplo dove Giuseppe Gentile detiene, seppur brevemente, il mondiale con quel 17.22 metri, che sarà primato nazionale addirittura sino al 1999! Grande nei 110hs l’impresa di Eddy Ottoz, terzo con 13″46, sulla scia degli imbattibili Usa. Come in una sorta di saga famigliare questo primato italiano resisterà fino al 1994 quando cadrà per mano del figlio Laurent. Da ricordare la presenza dell’attuale Presidente federale Francesco Arese che corse i 1500 superando il primo turno con 3’51”86, poi eliminato in semifinale col tempo di 3’54”85; l’ottimo sesto posto di Vittorio Visini (oggi responsabile della marcia italiana) nella 50km di marcia; l’ottava piazza di Roberto Frinolli nei 400hs, in seguito tecnico di ottima levatura e, nel salto in alto, la sesta posizione, con 2.14mt.,di Giacomo Crosa (in seguito giornalista di elevato profilo e fra i migliori cantori del nostro sport). Infine, addio alle armi per il glorioso Livio Berruti: con l’uscita di scena nei 200 metri, a livello di quarti di finale, da l’addio alle scene internazionali.
TARTAN E ALTITUDINE: LE DUE GRANDI NOVITA’ DEI GIOCHI MESSICANI (di Gustavo Pallicca)
Il Messico aveva presentato la candidatura della sua capitale all’organizzazione dei Giochi Olimpici ancor prima della disputa delle olimpiadi australiane; successivamente la ripresentò in vista dell’assegnazione della manifestazione del 1960 ma questa volta gli fu preferita Roma.
I messicani non si persero d’animo. Presentarono una ricca documentazione, che conteneva un approfondito studio sugli effetti dell’altitudine, e riuscirono a convincere i membri del CIO i quali in occasione della loro 60a Assemblea Generale, che si tenne il 30 ottobre 1963 a Baden Baden, votarono – 30 su 58 – in favore della assegnazione dei Giochi della XIX Olimpiade a Città del Messico, rivolgendo però al Comitato Olimpico messicano la raccomandazione di organizzare tre “settimane sportive internazionali” con cadenza annuale a partire dal 1965, nello stesso periodo programmato per i Giochi, al fine di consentire ai concorrenti dei vari paesi di provare le reazioni dell’organismo all’alta quota e di sperimentare gli impianti.
Città del Messico si trova a 2277 metri di altitudine ed è la sede più alta sul livello del mare ad aver ospitato i Giochi Olimpici. Fino ad allora non erano state molte le esperienze acquisite su prestazioni ottenute in altitudine e quindi il problema interessò medici e fisiologi per tutto il periodo precedente la disputa dei Giochi, anche perché i partecipanti ai Giochi Panamericani del 1955, che si erano svolti a Città del Messico, avevano diffuso notizie allarmistiche circa gli effetti negativi dell’altitudine per i partecipanti a gare aventi la durata superiore ai due minuti. Tutte le nazioni improntarono la preparazione dei loro atleti in funzione di questo particolare nuovo aspetto tecnico che non sarebbe rimasto fine a sé stesso ma avrebbe aperto la via ad un nuovo sistema di allenamento, così detto “in quota”, che verrà da allora in poi praticato prevalentemente dai corridori di mezzofondo e fondo alla ricerca di migliorare le capacità di lavoro del loro sistema vascolare.
Al problema dell’altitudine che, come vedremo, favorisce una parte delle specialità atletiche mentre influisce negativamente sull’altra, si aggiunse anche un altro fattore tecnico a creare preoccupazioni agli atleti ed ai loro preparatori: quello del fondo della pista e delle pedane. A Città del Messico infatti gli impianti di gara vennero realizzati con un nuovo materiale, il tartan, una resina poliuretanica prodotta dalla americana Minnesota con il marchio 3M a metà degli anni ’60. Il prodotto aveva incontrato subito un grande successo e molte università americane e canadesi lo avevano utilizzato per realizzare nuove piste e pedane per i loro stadi. In virtù delle qualità di resistenza e di confort che il prodotto presentava, il Comitato Organizzatore dei Giochi propose alla IAAF di poterlo utilizzare negli impianti che avrebbe realizzato in vista delle Olimpiadi di Città del Messico. La proposta messicana venne discussa durante il Congresso della IAAF di Budapest 1966, ma, come ci ha riferito il Prof. César Moreno Bravo, oggi membro del Consiglio della IAAF ed all’epoca direttore delle gare di atletica ai Giochi del 1968, il massimo organismo vietò espressamente l’uso del materiale sintetico presentato dagli organizzatori per la realizzazione degli impianti dello Stadio Olimpico in quanto, essendo esso al momento utilizzato solo per impianti situati nel Nord America, avrebbe costituito una discriminante nei confronti degli altri Paesi, i cui atleti non avevano ancora avuto la opportunità di poterlo sperimentare. I dirigenti messicani però insistettero sul loro progetto iniziale e riuscirono ad ottenere in extremis dalla IAAF l’autorizzazione a far disputare le gare della loro Olimpiade sul tartan.
Ecco come andarono le cose. Abbiamo visto che a causa delle opinioni contrastanti sulla opportunità di affidare ad una località in altura i Giochi Olimpici, gli organizzatori avevano programmato d’accordo con la IAAF alcune manifestazioni per consentire agli atleti di acclimatarsi con la quota, l’ultima delle quali si svolse nell’ottobre del 1967 alla presenza dei Delegati Tecnici della IAAF, l’olandese Adrian Paulen, che nel 1976 ne diverrà presidente, e l’inglese Donald Pain. Gli organizzatori messicani predisposero per le gare di atletica due impianti: uno, secondario, con pista in materiale tradizionale, mentre, con coraggio e lungimiranza, dotarono lo Stadio Olimpico di pista e pedane in tartan. Al momento delle gare invitarono i Delegati Tecnici ad assistere alle prove onde valutare le reazioni degli atleti all’utilizzo dei due diversi impianti. Il giudizio più atteso era naturalmente quello degli atleti provenienti da Paesi che non fossero del Nord America per i quali il tartan era una novità assoluta. Ebbene la loro reazione di questi si manifestò unanimemente in modo positivo e quindi i Delegati Tecnici non ebbero più motivo di opporsi all’utilizzo degli impianti rivestiti dal nuovo, rivoluzionario materiale: il tartan.
Paulen e Pain però, esaminata la gamma dei colori nei quali il tartan veniva allora prodotto (beige, verde e bleu), posero una condizione alla sua utilizzazione: che il manto della pista e delle pedane fosse dipinto di rosso, colore ancora mai usato dalla Minnesota, che non ebbe alcuna difficoltà ad accontentarli! Questo materiale, inattaccabile dagli eventi atmosferici esterni, veniva “steso” per un’altezza di un centimetro e mezzo su di una base di asfalto precedentemente preparata. Esso garantiva agli atleti uniformità di rendimento in qualsiasi condizione ambientale ed inoltre risolveva i problemi di manutenzione non necessitando di cure particolari da parte degli addetti.
Non mancarono però i problemi da affrontare, ma furono tutti superati facilmente dagli atleti con un necessario approccio ed un progressivo adattamento al nuovo materiale. La elasticità del prodotto esigeva infatti un adeguato allenamento da parte dell’atleta che altrimenti rischiava di incorrere, specie nei primi tempi di utilizzazione, in incidenti muscolari. Il problema si imponeva prevalentemente per gli ostacolisti e per i saltatori in estensione che dovettero cambiare i tempi di reazione alla spinta e quindi i moduli di rincorsa e di stacco. La stessa fase della partenza fu influenzata dall’avvento del tartan, tanto che si dovette modificare la costruzione dei blocchi di partenza. Non tutti i paesi furono pronti ad allestire nuovi impianti in tartan od a modificare quelli già esistenti. Per molti atleti quindi l’esperimento si circoscrisse alla partecipazione alle tre manifestazioni preolimpiche che i messicani organizzarono puntualmente in ossequio agli accordi presi con il CIO.
In Italia il CONI e la FIDAL realizzarono alla Scuola di Atletica Leggera di Formia un rettilineo di due corsie lungo 120 metri e le pedane per i salti in alto, in lungo e con l’asta, onde consentire ai nostri olimpionici una adeguata preparazione. Sicuramente l’altitudine ed il tartan furono fra i protagonisti dei Giochi di Città del Messico. Del tartan abbiamo già parlato. Non più piste allagate o fangose. Non più prime corsie impraticabili e piste che si sfaldavano sotto la spinta degli atleti più potenti. Il tartan con la pioggia produceva un leggero strato di schiuma e quindi al massimo poteva diventare scivoloso, ma bastava poco tempo per asciugarlo e riportare la pista e le pedane alla normalità.
Un discorso a parte richiese invece lo studio dell’influenza dell’altitudine sull’organismo umano. Senza addentrarci in disquisizioni scientifiche che non ci competono, diremo molto semplicisticamente che in altura le gare veloci fino ai 400 metri compresi ed i salti in estensione furono avvantaggiati dalla rarefazione dell’aria, mentre i corridori di media e lunga distanza risentirono della difficoltà incontrata dai tessuti al trasporto di ossigeno, di qui il fenomeno della deficienza dell’ ossigeno stesso comunemente chiamato “ipossia ipossica”, con conseguente alterazione del ritmo della respirazione e della frequenza del battito cardiaco, in quanto il cuore era chiamato ad un superlavoro per aumentare l’afflusso di sangue.
Poiché noi ci occupiamo di 100 metri il problema da esaminare è quello del vantaggio che l’altitudine, sinonimo di aria rarefatta e quindi minor resistenza della stessa, offre ai velocisti. E’ noto che gli scattisti operano nella zona del cosiddetto sforzo anaerobico, cioè in assenza di ossigeno, e quindi non risentono dei problemi relativi al trasporto dell’ossigeno stesso nell’organismo umano e sono quindi in condizione di sfruttare in pieno i vantaggi della rarefazione dell’aria. Il francese Jean Creuzé, statistico ed ingegnere aerodinamico, giunse a quantificare i vantaggi dell’altitudine di Città del Messico per una gara sui 100 metri, con quelli di un vento che avesse soffiato alle spalle dei concorrenti alla velocità di 1.20 m/s. Questo vantaggio era di difficile quantificazione in tempi di cronometraggio al decimo di secondo. Con l’avvento del cronometraggio automatico al centesimo fu invece possibile formulare più esattamente il conteggio e valutare meglio il guadagno in termini cronometrici che derivava ai velocisti dalla maggior rarefazione dell’aria e dalla minor forza di gravità. Il Prof. Arcelli affermò nella sua tesi di laurea in medicina che a Città del Messico sui 100 metri di sarebbero guadagnati quasi due decimi, per la precisione 19 centesimi di secondo. Altri studiosi di problemi atmosferici, come registrò puntualmente Roberto L. Quercetani in un suo articolo, si misero al lavoro per quantificare l’aiuto che l’altitudine era in grado di offrire. Il matematico e statistico neozelandese Peter Heidenstrom, che aveva già effettuato studi sugli effetti del vento in gare di velocità e salti in estensione, sostenne che un’introduzione a studi del genere esisteva fin dagli anni ’20 e si doveva all’inglese Archibald Vivian Hill, premio Nobel 1922 per la medicina e la fisiologia. La materia, oltre che dal già citato Jean Creuzé venne esaminata in particolare dagli americani Wayne Armbrust e Rudy Hensel, e sicuramente anche da altri scienziati. Il risultato di queste ricerche venne reso noto da Bert Nelson, direttore di “Track & Field News”, ed i vantaggi dell’altura coincisero in linea di massima con i dati che gli statistici Donald Potts e Peter Heidenstrom avevano nel frattempo fissato in queste misure:
– 100 metri : da 0.10 a 0.20 (nelle distanze piane) – 0.11 (per gli ostacoli)
– 200 metri : da 0.20 a 0.30 (nelle distanze piane) – 0.20 (per gli ostacoli)
– 400 metri : da 0.40 a 0.80 (nelle distanze piane) – 0.36 (per gli ostacoli)
Il Regolamento Tecnico della IAAF non fa alcun cenno al problema relativo all’altitudine, ne venne mai suggerito di tenere graduatorie separate per le prestazioni ottenute in altura da quelle conseguite a livello del mare, anche se gli statistici puntualmente evidenziarono questa differenziazione. Il fatto è quindi puramente di ordine scientifico e statistico e non regolamentare.
I paesi più evoluti cercarono di favorire i loro atleti sottoponendoli a periodi di acclimatazione in località situate ad altitudini vicine a quella di Città del Messico. Sorsero così importanti centri di allenamento negli Stati Uniti ad Echo Summit (m. 2.250), località vicina al South Lake Tahoe ed Colorado Spring (m. 1.823), in Europa a Font Roméu (m. 1.850) e Leninakan (m. 1.562) ed in Africa a Bloemfontein (m. 1.370). Pur restando ancora membro del CIO – ma ne uscirà a partire dai Giochi di Monaco di Baviera del 1972 per rientrare venti anni dopo – il Sudafrica si vide ritirare nuovamente l’invito di partecipazione ai giochi per le ormai note questioni razziali.
fonte: http://recordmen.blogspot.it/2012/05/breve-storia-atletica-ai-giochi.html
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